“Scusi, lei è uno scrittore cannibale?”
Chi mi stava facendo questa domanda non era il solito giornalista, critico, lettore, ma una vecchietta piccolina e gobba, chiusa in una lunga vestaglia di flanella a fiori.
“Non ho capito... Che ha detto?”
“Ho detto: lei è uno scrittore cannibale?”
Se ne stava lì, come una testuggine, in piedi davanti alla porta di casa mia, appoggiata a un bastone nero e mi guardava dal basso del suo metro e mezzo, attraverso due fondi di bottiglia.
La vedova Menichelli.
Abitava nel mio palazzo. Al secondo o al terzo piano. E si vedeva raramente in giro. Usciva solo per andare a fare la spesa al supermarket SMEC di viale Regina, trascinandosi dietro un enorme carrello mezzo sfondato.
Non guardava in faccia nessuno. Non salutava nessuno. Quella era la prima volta che ci parlavo in vita mia.
“Allora, giovanotto, è o non è uno scrittore cannibale?” insistette spostandosi in bocca la dentiera.
Che le potevo rispondere?
Che non mi piacciono le etichette, che me l’hanno appiccicato addosso, che io sono uno scrittore e basta, insomma le solite cazzate che dico ogni volta a tutti?”
No.
Troppo complicato.
“Sissignora. Ha davanti uno Scrittore Cannibale. Che cosa posso fare per lei?”
“Bene, mi deve aiutare. Mio nipote Gianfranco è impazzito. Lei mi deve aiutare.”
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