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Niccolò Ammaniti: Il libro nero di Sanremo

Written By robi on Wednesday, 20 February 2013 | 04:21





Mango se ne stava accasciato sulla poltrona del suo camerino e rifletteva che nonostante fosse da molti considerato l'unica vera alternativa alla tradizione musicale italiana e racchiudesse in sé tutte le caratteristiche più personali di un grande compositore e di un grande interprete, di tutto ciò, detto a chiare parole, non gliene poteva fregare di meno.
Mancavano ormai poche ore all'inizio del festival più importante del mondo e si sentiva depresso come poche volte gli era capitato di essere nella vita. L'esistenza della popstar lo aveva stancato. E odiava Sanremo con tutto il cuore. Un laido baraccone dove da più di dieci anni inscenava la farsa del compositore latino che riesce a raggiungere un respiro internazionale rimanendo imbevuto dello spirito della sua cultura. Ma quale cultura e cultura. Non sopportava più quella settimana di apnea che si doveva sciroppare ogni anno. Una tassa necessaria per poter sopravvivere. I giornalisti sempre a criticarti, il pubblico che si comporta come una banderuola. Pronti a esaltarti, a dirti che sei il più grande di tutti e poi appena molli un attimo, appena hai una normale crisi creativa ti buttano via come uno straccio. E poi c'era sua madre. Mariapia Mango aveva settantaquattro anni e viveva a Lagonegro, in Basilicata. Che errore terribile aveva fatto a montarle in casa il Salvavita Beghelli. Ma lui che ne poteva sapere, che quello era un oggetto infernale, fatto apposta per farti saltare i nervi. Gli era arrivato a casa un pacco dono dalla Beghelli, lo sponsor del festival, e dentro c'era un Salvalavista TV, un Salvalavista Computer 626 e il dannatissimo Salvavita. Lo aveva dato a sua madre, che diceva di soffrire di coronarie e quella ci si era attaccata come fosse un telecomando della TV. Per tre volte Mango si era precipitato a Lagonegro per scoprire che sua madre stava benissimo, era solo in pena per quel figlio che conduceva quella vita zingara. L'ultima volta, in preda a una crisi isterica, lo aveva strappato dal telefono e lo aveva gettato dalla finestra. Ma la madre aveva spedito la garanzia e con una astuzia malvagia era riuscita a farsene rimandare uno nuovo.
Mango si attaccò alla bottiglia di Uliveto e poi si studiò allo specchio. Aveva le occhiaie. Aprì la bocca e tirò fuori una lingua che sembrava un calzino da tennis. Il nuovo look, capello corto, basetta alta e barba sfatta non lo convinceva. Oramai aveva una certa età, non poteva continuare a fare l'adolescente. Tutta colpa di quella cretina della sua parrucchiera.
In questo oceano di dolore aveva almeno una consolazione. Quest'anno cantava “Luce”, un pezzo d'ispirazione new-age, in duo con Zenima, giovane scoperta della canzone italiana di origine mediorientale, le cui doti vocali fuori dal comune ben si sposavano con la raffinata ricerca vocale da sempre al centro della sua esperienza artistica. Oltre che essere una grande interprete era anche una ragazza sensibile, non una delle migliaia di buzzicone che affollavano il palco dell'Ariston. Praticava lo yoga ed era una buona conoscitrice della cultura orientale. Amava l'architettura e il teatro giapponese, le poesie di Emily Dickinson e la musica romantica mitteleuropea. La loro fusione avrebbe potuto far emergere una nuova linea melodica, intimista e meditata, che non aveva niente a che spartire con la merda dei Jalisse.
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